
Brecht e i media
1 Gennaio 2013
Ritualità massonica nella letteratura della Goethezeit
1 Gennaio 2013
A cura di Simonetta Sanna
Lo studio delinea una trama sottesa tanto alla vita quanto all’opera di Franz Kafka, in cui si intrecciano motivi originari dell’esperienza biografica. Ne consegue l’individuazione di una dinamica interiore che si trasmette ai molteplici ambiti del suo vissuto, dagli affetti alle esperienze professionali, e persino al suo modo di intendere il suo essere ebreo. Questa stessa dinamica, unitaria e insieme mutevole. Consente una comprensione organica di aspetti peculiari di Kafka scrittore, quali la predilezione per la scrittura notturna e per le forme brevi, l’avversione per le consorterie letterarie o il superamento dell’orizzonte biografico nell’opera della maturità. I capitoli conclusivi, indugiando sulla soglia della scrittura, giungono ad affrontare i motivi centrali dell’estetica di Kafka: perché le vicende narrate sviluppano tanto una fisionomia originale, anzi propriamente kafkiana, quanto implicazioni generali, archetipiche? Perché in Kafka il fare riferimento a famiglia, burocrazia o ebraismo significa chiamare in causa tutti gli altri sistemi? E perché le sue opere sono destinate a generare ipotesi di senso pressoché illimitate, di modo che ogni lettore può riconoscersi nella parabola del Processo: «Nessun altro poteva entrare da qui, questo ingresso era destinato solo a te»? Sono soltanto alcune delle domande di senso che lo studio affronta da una inedita prospettiva.
ISBN: 978-88-95868-32-5
Roma 2013 pp. 220 €30
Recensioni:
- Barbara di Noi in «Osservatorio critico della germanistica italiana», in «Studi Germanici», 6 (2014)
- Gabriele Scaramuzza, Novità su Kafka, comparso in Nuove su Kafka, disponibile su http://libertariam.blogspot.it/p/campi-elisi.html
Barbara di Noi in «Osservatorio critico della Germanistica Italiana», in «Studi Germanici», 6 (2014), pp. 436-442.
Questa monografia costituisce un valido ausilio per chi si accosti alla vita e all’opera di uno dei classici del Novecento. In particolare il libro di Simonetta Sanna ha il merito ribaltare uno dei luoghi comuni del kafkismo, che vogliono l’opera di Kafka nascere in un clima di esilio, se non di ascetico isolamento dalla contemporaneità e più in generale dalla storia. Pur ribadendo che la parabola esistenziale di Kafka si inscrive in maniera esemplare nello schema della divaricazione e della dissonanza tra istanza vigile e impulso creativo, svolgendosi secondo il modulo di un vero e proprio Doppelleben, scisso e a tratti addirittura lacerato tra la vita diurna e l’ufficio, e la vita notturna e “sotterranea della scrittura”, Sanna indaga con attenzione il double bind instaurato tra vita e scrittura: per cui la scrittura rifugge la vita, ma poi in qualche misura la ingloba, in un processo di costante translitterazione del dato biografico in obiettivazione insieme nitida e surreale, cristallina eppure enigmatica. La scrittura, che per Kafka è tanto più pura e limpida della vita, ed è anzi un modo per innalzare la vita stessa nel Vero, con la Verità non può tuttavia essere identificata, per via dell’assoluta inadeguatezza delle categorie gnoseologiche dalle quali ogni conoscenza umana, necessariamente vincolata ai limiti di una prospettiva parziale, non può prescindere. L’Arte insegue quindi la Verità, ma col preciso intento di non bruciarsi. Ovvero, per dirla con un altro aforisma, la nostra Arte è un essere abbacinati dalla Verità, e solo la smorfia sul volto che si ritrae può essere mostrato. Null’altro. In nome della tesi dell’inscindibilità di vita e scrittura, più della metà della monografia è dedicata alla vicenda umana, indagata secondo i vettori dell’infanzia e del contesto familiare, della vita lavorativa, degli amori. Viene ricostruito con precisione il contesto in cui Kafka operò, prima e dopo la Grande Guerra, che segnò in parte la diaspora dell’eccezionale ecumene ebraico-tedesca che aveva nella capitale boema il suo quartier generale: la Praga degli ultimi anni dell’impero asburgico, col suo febbrile fiorire di talenti letterari, la Dreivöllkerstadt crocevia tra Oriente e Occidente, in cui giungono gli Ostjuden galiziani e gli attori di Lemberg guidati da Jizchak Löwy, cui Kafka si sente immediatamente legato da un’amicizia addirittura fraterna, e che indirettamente lo spinge ad accostarsi alla storia della letteratura jiddisch. Ma soprattutto Löwy ha il merito di indurre lui, che nelle lettere a Milena si sarebbe definito come il più occidentale degli ebrei occidentali, a interrogarsi sulle deboli radici del proprio ebraismo. L’amicizia con Löwy fa non a caso da catalizzatore del conflitto con il padre Hermann, l’ebreo boemo che ha compiuto il passo decisivo verso l’assimilazione, e per il quale gli Ostjuden non sono che il ricordo molesto della povertà dello sthetl. Uno spazio notevole è ovviamente dedicato ai rapporti coi genitori, forse indulgendo talvolta a un certo psicologismo. Una delle tesi che sostiene l’impianto complessivo, è infatti che la scrittura kafkiana sia nata come reazione al mancato riconoscimento della propria Eigentümlichkeit all’interno della cerchia familiare. I primissimi anni di vita di Franz sono segnati da un lato dal lutto – la morte dei due fratellini, nati dopo di lui e morti entrambi in un brevissimo lasso di tempo – dall’altro dal conseguente senso di abbandono da parte della figura materna; Julie Löwy, appartenente a una famiglia della buona borghesia ebraica, fatta di professionisti e talmudisti, ma che annovera anche un discreto numero di scapoli e Sonderlinge – è l’oggetto del desiderio irraggiungibile e lontano del piccolo Franz, perché immersa nel comprensibile clima di malinconia per la morte dei fratellini, e in un secondo momento eccessivamente assorbita dalle cure del padre e del negozio. L’affermazione della propria peculiarità individuale troverebbe il proprio originario movente nella privazione di affetto e di attenzione. Privazione che determina altresì la messa in atto di una serie di strategie volte al superamento dell’angoscia di morte. L’altro importante assunto è quello già accennato della strettissima connessione di vita e letteratura. Connessione nient’affatto univoca, ma che si configura piuttosto alla stregua di double bind, per cui la scrittura si sottrae alla vita, ma non conduce affatto un’esistenza autonoma rispetto a questa: anzi della vita continua ad alimentarsi in un movimento ciclico o elastico fatto di avvicinamento e di fuga: ci si allontana da casa ma solo per continuare a scrivere a casa, come dice con chiarezza esemplare Kafka in una delle ultime missive a Max Brod. Un capitolo importante è dedicato allo scandaglio della vita affettiva di Kafka, al ruolo che hanno avuto le numerose donne cui si è accostato, quasi sempre seguendo lo stesso schema oscillante tra avvicinamento e ripulsa. Dopo aver ripercorso le tappe dei rapporti con Felice e Milena, Sanna approfondisce giustamente l’ultimo scorcio di vita, che gli vide accanto la giovanissima Dora Diamant. ? la fase terminale della malattia, quella in cui lo scrittore troverà finalmente in sé la forza per tagliare i ponti con la famiglia ma, soprattutto, con Praga, la «mammina con gli artigli» come l’aveva definita in una precoce lettera all’amico d’infanzia Oskar Pollak. Approfondendo una notazione dei diari, in cui si parla della mancata sintonizzazione tra l’orologio interiore e quello esteriore, Sanna osserva a ragione la peculiare discronia che caratterizza le scelte esistenziali di Kafka, sempre in ritardo sul proprio tempo. Ovvero giungono troppo tardi rispetto alle esigenze imposte dalla logica della contemporaneità. Ma forse proprio il carrattere inattuale di quest’opera (unzeitmäßig in senso nietzscheano) rientra poi nella Eigentümlichkeit dell’individuo e dello scrittore Franz Kafka. La vita di Kafka cambia, ammesso sia lecito parlare di sviluppo per uno scrittore che, al pari di Baudelaire, nega a se medesimo la possibilità di evolversi, almeno quanto nega il principio del progresso storico. La vita cambia, eppure, come si legge nelle battute iniziali delle Forschungen eines Hundes, rimane in fondo identica a sé. Anche in quest’immutabilità, o meglio in questo ciclotimico alternarsi di dispersione e condensazione, andrà visto un riflesso della Eigentümlicheit. Kafka aveva espresso il rifiuto, se non addirittura il fastidio nei confronti della psicologia. E ciò a più riprese e in maniera apparentemente recisa, tale da non permettere repliche. Ne parla ad esempio a proposito del progetto autobiografico, che si trova al centro di tante riflessioni diaristiche e come un filo rosso percorre il suo pensiero sulla letteratura e lo Schreiben: dal 1911, periodo in cui si documenta avidamente sul genere autobiografico, spaziando da Grillparzer a Stauffer-Bern, e ovviamente occupandosi di Dichtung und Wahrheit e della biografia di Mörike, fino al 1922 quando, giunto all’ultimo confine del Castello e non riuscendo più ad andare avanti, decide di dedicarsi a «indagini biografiche parziali» partendo da elementi minimali della propria vita. Dunque in questa marcia da fermi che fu l’esistenza di Kafka, Sanna individua degli spostamenti, delle variazioni, anche se la struttura a cerchi concentrici viene confermata ad ogni nuovo tornante; del resto anche Gerhard Kurz ha individuato nella lotta la struttura portante dell’opera kafkiana, riaffiorante dagli esordi di Beschreibung eines Kampfes, fino al Castello. Ciò che in questa lotta è però peculiare, e la distingue in fondo dalla ribellione espressionista, è che avviene tra elementi indistinguibili, in cui lo Eigenes indossa la maschera del Fremdes, sì che nella generale ambivalenza il lettore viene costantemente disorientato, e si perde in un labirinto di riverberi e false parvenze al pari del protagonista. Nella seconda parte della monografia Sanna, pur ribadendo il costante riferirsi dell’opera alla vita, volge l’attenzione alla scrittura kafkiana; essa discende come in un corollario dalla categoria psicologica sotto cui, sulla scorta di Jung, viene rubricato Kafka: quella dell’intuitivo introverso. L’appartenenza a tale categoria spiegherebbe a sufficienza la predilezione di questa scrittura per le ore notturne, quando le luci del mondo fenomenico si sono spente, e le immagini affiorano in un flusso continuo dall’interiorità. D’altra parte l’opera di scavo dell’intuitivo-introverso, pur partendo dal soggetto per farvi circolarmente ritorno, riesce poi a conferire alla «sognante vita interiore» una plasticità e una concretezza visionaria tipiche del genio. In realtà, qualunque sia il punto di partenza o l’assunto che si dà per scontato, con Kafka, sempre si finisce per barcollare insieme ai suoi personaggi nel labirinto di specchi di cui si diceva: l’estrema soggettività si fa visione, secondo un meccanismo di Vergegenwärtigung che è soprattutto ribaltamento (Kurz ha parlato di una «nach außen umgestülpte Innenwelt», un mondo interiore rovesciato all’esterno come un guanto). E lo stesso concetto di peculiarità e individualità rischia di rivelarsi un’arma spuntata, se non viene dialettizzato con il suo opposto, ovvero con quella sete di comunità e di accoglimento, con il desiderio di venir «assunto» (aufgenommen), di cui tutta l’opera testimonia, dal teatro di Oklahoma fino alle vicissitudini dell’agrimensore K. Forse partendo dalle metafore spaziali, che costellano gli aforismi e i diari, potremmo meglio entrare nella logica della narrativa kafkiana, logica che è inscindibile dalla natura prospettica del linguaggio. Il movimento circolare del processo gnoseologico, riconducibile a una scissione non più sanabile tra Vita e Coscienza (di qui tutta la riflessione di Kafka sulla Selbsterkenntnis, sull’odio per essa, e al tempo stesso la constatazione della sua impossibilità), viene introiettato dalla scrittura kafkiana, per cui essa non si limita a opporsi alla vita, ma mimicamente la riproduce; e la riproduce non solo come oggetto di desiderio e nostalgia, ma anche come meccanismo di potere e di sopraffazione. Da qui la geniale intuizione, sottolineata a suo tempo già da Baioni, che Legge ebraica e mondo borghese possono essere stretti in un rapporto di mutua sostituzione simbolica. Dal punto di vista metodologico il libro di Sanna mostra come ogni interpretazione che pretenda di ridurre la polisemia del mondo kafkiano sia destinata a fallire. Proprio in virtù del carattere astratto, del vuoto di senso che l’opera di Kafka esibisce («Solo le interruzioni ho potuto mostrare» si legge in una lettera a Felice), essa è stata oggetto di una miriade di letture di tipo empatico, in cui ogni lettore si può dire ha riconosciuto nella situazione rappresentata qualcosa della propria personale vicenda. Così come, a partire dall’esistenzialismo, ogni corrente di pensiero ha restituito una propria immagine di Kafka. Per sgombrare il campo in particolare da interpretazioni che leggono i maggiori romanzi in chiave eccessivamente ideologizzata o sociologica, Sanna ricostruisce con grande precisione la carriera di Kafka, all’interno dello Arbeiter-Unfall-VersicherungsAnstalt, che lo portò dal ruolo di semplice praticante su su nella gerarchia dei funzionari, fino a raggiungere, poco prima del precoce pensionamento (febbraio 1922), un ruolo direttivo di segretario capo. Tutt’altro di quella schlechte Karriere, dunque, di cui parlava lo stesso Kafka identificandosi con un personaggio di Robert Walser. Con grande precisione Sanna ricostruisce il ruolo dell’Istituto Assicurativo negli anni che precedono la Prima Guerra Mondiale, mostrando l’impegno dello scrittore in progetti di rilevanza sociale, volti al miglioramento delle condizioni die lavoratori e, soprattutto, nella prevenzione dei rischi. Ma soprattutto ci restituisce l’immagine di un Kafka tutt’altro che misantropo o avulso dal proprio contesto sociale, impegnato dopo la guerra nella creazione del primo Istituto popolare tedesco-boemo per la cura delle malattie nervose, in particolare di quelle riconducibili ai traumi bellici. Quest’immagine di grande umanità, che corrisponde al desiderio concretissimo di non sottrarsi alle sofferenze dei propri simili, trova del resto conferma nei ricordi di Dora Daimant, che si riferiscono all’ultimo periodo nella Berlino sconvolta dalla povertà e dalla svalutazione. Quando Kafka, povero anche lui e ormai allo stremo, era capace di rimanere per ore in fila per acquistare il latte, e questo era il suo modo «di vivere la comunanza con un popolo infelice in un’epoca infelice». Potremmo concludere citando un celebre passo in cui Kafka dice di essere fine e principio: «Di ciò che occorre per vivere non ho, a quel che mi consta, portato con me quasi nulla, ma soltanto l’umana debolezza comune tutti. Con questa – che, sotto tale aspetto, è una forza poderosa – ho affrontato gagliardamente quanto c’era di negativo nel mio tempo, cui mi sento molto vicino, e che non ho il diritto di combattere ma, in un certo senso, di rappresentare».
Barbara di Noi
Gabriele Scaramuzza, in Nuove su Kafka, disponibile su «Odissea – Campi Elisi», http://libertariam.blogspot.it/p/campi-elisi.html
Né nel ’13 né nel ’14 ricorre alcun anniversario kafkiano, eppure quest’ultimo scorcio di tempo ha visto quanto meno la ripubblicazione di un romanzo di Kafka, e di alcuni scritti su Kafka. 1. La cosa che per prima dà nell’occhio è naturalmente l’uscita, presso Mimesis (Milano, 2014), di una nuova traduzione di Il Castello (condotta sull’edizione critica del romanzo a cura di Malcolm Pasley, uscita da Fischer nel 1981) a cura di Barbara di Noi, cui si deve il saggio introduttivo («Congetture su K. Landstreicher e Landvermesser: l’ambiguità dell’evidenza»); a Franco Rella si deve la postfazione («Kafka. Raccontare l’esilio»). La riproposta del Castello offre lo spunto per ripensare qualche tratto di questo romanzo, e per confermare convinzioni già formatesi. Mi permetto solo qualche riflessione, le prime che la rilettura mi offre. Il tema di fondo, come è risaputo, è l’estraneità di K., il ritrovarsi in un mondo ostile, il sentirsi in esso «di troppo». Nel secondo capitolo del romanzo (nella traduzione di A. Rho) leggiamo: «K. sapeva che non lo minacciavano costrizioni, di questo non aveva paura, soprattutto nel caso presente; temeva invece la potenza d’un ambiente scoraggiante, l’abitudine alle delusioni, la violenza degli influssi imponderabili che avrebbe subito ad ogni momento, ma contro questo pericolo doveva arrischiare la lotta». K. vive «la condizione esistenziale dell’uomo cui il proprio destino non appartiene» – scrive Remo Cantoni nella sua prefazione alla prima traduzione in italiano del romanzo, tuttora da tenere ben presente, di Anita Rho (Milano, Mondadori, 1948). Ma al tempo stesso K. è animato dalla costante attesa, dal profondo desiderio anzi, di venir accolto, di essere accettato nel mondo in cui approda. Come sempre in Kafka, anche questa storia non è la storia di una trama che cresce su se stessa, si chiarisce, si compie; ma piuttosto di qualcosa che sembra chiaro all’inizio e si presenta con tutti i crismi della plausibilità, ma di fatto si disfa e si perde. Come il canto di Giuseppina, le leggi che motivano l’arresto di Josef K., il messaggio dell’imperatore. Così la lettera che K. riceve tramite Barnaba, e che pare dapprima fugare ogni dubbio, è sottoposta nel corso del romanzo a esegesi, precisazioni, messe a punto, che di fatto rendono precaria, e di fatto annullano, la conferma della chiamata come agrimensore, che aveva spinto K. ad approdare al villaggio raccolto attorno al castello. Qualcosa è atteso, disperatamente perseguito, con determinazione, e tuttavia sfugge. Il riconoscimento resta solo sperato, la condizione di straniero resterà tale. Non sappiamo come vada a finire la vicenda: il romanzo resta incompiuto. La testimonianza di Max Brod non gli toglie, anzi ne conferma, l’enigmaticità: Kafka stesso gli avrebbe confidato che nel finale del romanzo K., ormai morente (come il contadino della parabola della legge), vede giungere dal Castello la decisione, «che non dà a K. diritto di cittadinanza nel villaggio, ma, per riguardo a certe circostanze accessorie, gli concede tuttavia di vivere e di lavorarci» (Nota di Brod posta alla fine dell’edizione mondadoriana del Castello). L’incompiutezza non è tanto un caso infelice, una carenza; in certo modo appartiene alla sostanza stessa del romanzo – come Remo Cantoni ha sottolineato nella prefazione cui già s’è fatto cenno. 2. Già il titolo Kafka è stato con me tutta la vita (Bologna, Il Mulino, 2014), di Antonio Cassese, prestigioso giurista da poco scomparso, è quanto mai sintomatico: segnala la profonda complicità dell’autore con Kafka. «Kafka – scrive – è grande perché ha saputo esprimere la sua irrequietudine disperata in termini così universali, che ognuno di noi, leggendolo, vede nei suoi racconti il riflesso delle proprie incertezze e fragilità». Perché «esprime per immagini» quel «senso profondo di inquietudine per l’incomprensibilità del mondo», che ci è comune. Trova consenzienti ovviamente il riconoscimento esplicito della grandezza di Kafka, messa in discussione da pochi – tra cui in particolare, come ci ricorda lo stesso Cassese, Edmund Wilson (Saggi letterari 1920-1950, Milano, Garzanti, 1967, pp. 273 e 279). Ci sono poi motivi enucleati con gande finezza, quale quello della della finestra: nel Processo è ad es. presente in momenti chiave quali l’inizio e la fine, col senso di sospensione, di inquietante stranezza, di misteriosità, che reca in sé. Assai rilevante, e per nulla scontato (non è affatto presente, a quanto mi consta, nel panorama delle letture kafkiane), è il problema che Cassese vede come centrale in Kafka: il desiderio di esser di aiuto agli altri, la necessità di difendere gli altri, la ribellione all’ingiustizia. Insieme Kafka vive come colpa la propria impotenza, il non potersi opporre agli ostacoli immani che gli si parano davanti; neppure attraverso lo scrivere. Questo tema, esemplificato da Cassese in modo emblematico nell’esegesi di Il fuochista, è veramente per Kafka, scrive, «uno dei nodi essenziali della sua esistenza». È ricorrente in essa la disperante convinzione che «la redenzione, la fine del sentimento di colpa, la liberazione da tutte le lacerazioni e da tutti i conflitti, non potranno mai realizzarsi». Sono problemi che Cassese dovette sentire profondamente nella propria vita, animata da una profonda volontà di venire incontro agli altri, dal desiderio, sempre frustrato, di contrastare gli orrori della storia. Cassese fu attivo in vari organismi per la denuncia dei crimini della ex Jugoslavia, del Darfur, del Libano; prestò la sua opera nel Comitato del Consiglio d’Europa per la prevenzione della tortura, si impegnò nella Commissione dei diritti umani all’Onu. Insieme tuttavia la sua esistenza fu scossa dagli insuperabili ostacoli a realizzare i propri intenti e, con essi, se stesso. A suo parere trova eco in Kafka l’atroce delusione di non poter compiere la propria missione, l’angoscia di fronte a una violenza, a una sopraffazione che imperterrite mai cessano la propria opera. Un’ultima cosa è da rilevare: il dubbio di Cassese, radicale, che sbagliato fosse porsi quel problema, «che mi ha assillato così a lungo. Ma forse non esiste una risposta», afferma. Considero tipicamente kafkiano (almeno nell’interpretazione che alcuni ne danno) un simile dubbio: che sbagliato sia porsi domande, insistere a voler chiarimenti di qualcosa che è semplicemente da vivere nella sua enigmaticità. 3. Il libro di gran lunga più impegnato sul fronte delle specifiche ricerche kafkiane è tuttavia quello di Simonetta Sanna: Franz Kafka (Roma, Istituto Italiano di Studi Germanici, 2013). Dell’autrice ricorderei la formazione soprattutto berlinese e dunque di respiro assai più ampio di quello sardo in cui vive e opera (insegna all’Università di Sassari). Ha scritto comunque due libri sulla «questione sarda» e in Sardegna si è impegnata anche politicamente. Questo l’ha resa avvertita dei meccanismi del potere, e le è stato utile anche per affrontare adeguatamente in particolare, ad es., il dramma di Büchner, Dantons Tod. Da ultimo ha collaborato con artisti tedeschi ed è stata coinvolta in progetti di ricerca europea sul tema della violenza e del male; mi ha scritto che si occuperà delle donne naziste attive nella letteratura dal secondo dopoguerra a oggi – e spero di poter leggere i risultati di queste sue ultime ricerche. Di scritti e film sul nazismo, la shoah e l’antisemitismo sono un assiduo (ancorché dilettante) frequentatore, complice non solo Kafka, ma anche l’interesse, che dovrebbe essere di tutti, per il problema della violenza della nostra storia, e per il peculiare intreccio di alta cultura e barbarie nella storia della Germania, che Georg Steiner ha posto al centro dei suoi scritti. Il testo di Sanna è ricco, informato, convincente; «attento e prudente proprio là dove con Kafka bisogna esserlo» (adotto qui a mio uso parole sue). La scrittura non è arida ma accattivante, fluida anche laddove si fa densa. Non si perde in ampie discussioni critiche, ma insegue una propria via con determinazione ed equilibrio. La lettura del libro prende, e invoglia a parlarne, a farne oggetto di spontanee considerazioni. Questo vale tanto più nel mio caso, dato che in parte avalla tesi che ho sostenuto nel mio coevo Kafka a Milano. La città, la testimonianza, la legge (Milano, Mimesis, 2013). Mi ha trovato del tutto d’accordo il suo avvicinarsi all’opera di Kafka attraverso la vita, l’intrecciare arte e vita nella ricostruzione del mondo kafkiano. Senza mai tuttavia perdere la consapevolezza dell’alterità dell’opera rispetto alle rimanenti dimensioni del vivere. Il non abbandonare la vita a una sorta di mero preliminare, a un limbo da tener in disparte, quasi contasse solo una scrittura «autonoma» e valida a prescindere, lo condivido. Senza contare che di ciò che chiamiamo vita anche lo scrivere è pur parte, e non secondaria. Le pagine sulla vita sono già di per sé molto dense; così lo sono le pagine sul ruolo delle donne nell’esistenza di Kafka. Sul tema Simonetta Sanna ha detto le cose per me più vere; non ho mai letto nulla che mi convincesse di più. E non condivido proprio quello che altri hanno scritto, relegando questi eventi in una privatezza che ne sminuisce il senso e il valore. A proposito dei fidanzamenti di Kafka, dei suoi rapporti con la sessualità, un interesse biografico non comporta alcuna «deformazione soggettiva», dato che simili eventi hanno una «portata conoscitiva», volta a esperienze non solo soggettive. Oltre al tema delle donne, mi hanno poi colpito nella seconda parte il tema della «soglia» (già il titolo, di cui il termine fa parte, è benissimo scelto) e quello del possibile; oltre ad alcune osservazioni puntuali da cui ho imparato non poco. Felice è anche quanto una vota mi ha scritto, e che trova in me una conferma, circa «l’esser e uno con se stessi, premessa per aprirsi agli altri e alla loro complessità». In modo particolare è da rilevare il modo equilibrato, e senz’altro da tener presente, in cui è stato affrontato il problema dell’ebraismo in Kafka. Sul mio interesse per questo tema hanno senz’altro agito, oltre a Kafka, anche le mie frequentazioni del tema della Shoah, e alcuni studi che ho letto da ultimo, tra cui in particolare, di Elie Wiesel, Celebrazione hassidica. Aggiungo che mi ha fatto piacere che Sanna non abbia dato un rilievo esclusivo alle ricerche di Baioni, di cui è da apprezzare il grande lavoro, ma di cui anche non sono da accettare, a mio avviso, tutte le opinioni, e neppure le tesi di fondo. L’ebraismo è ovviamente importante per K., ma non è tutto; più condivisibile è qui la posizione di Remo Cantoni, ebreo per parte di padre (la madre era berlinese ma non ebrea; conosceva perfettamente la lingua e la cultura tedesca), per cui l’incidenza dell’ebraismo in Kafka non deve lasciare in ombra il suo profondo senso anche per chi ebreo non sia. K. era soprattutto scrittore, nella sua complessa personalità l’ebraismo, è innegabile, c’entra non poco; ma non è tutto. È solo un piano, per nulla trascurabile com’è ovvio, della sua peculiare torre di Babele. Non a caso tornano di continuo nelle pagine di Sanna il temine Eigentümlichkeit e simili, accanto al termine riconoscimento. Eigentümlichkeit, mi hai spiegato, consiste in «eigen più tre suffissi, come se si trattasse della massima sostantivizzazione possibile di ciò che è proprio, peculiare, caratteristico, distintivo di quell’individuo; ma proprio perché le differenze sono minime tanto più contraddistinguono proprio il singolo». Quanto a «riconoscimento», tra le cose che mi hanno catturato maggiormente sta proprio l’aver messo al centro, e poi sviluppato ampiamente, il tema del riconoscimento. È un tema centrale per me, lo sento anche personalmente come attuale. Concludo ricordando: ho chiesto a Simonetta Sanna la sua opinione circa i due termini con cui si apre e si chiude Il Processo: la calunnia e la vergogna. Per quanto restia a scender nel mondo estremamente complesso delle interpretazioni, e dunque cauta e portata a relativizzare le proprie tesi, mi ha offerto – «soltanto come individuo, non come studioso» (ciascun lettore, aggiunge, ha diritto ad avere una propria, purché non arbitraria, idee su cui riflettere). «Tutto – mi ha scritto – calunnia K, proprio perché nel caso della famiglia, della religione, dell’ebraismo, della burocrazia ecc. intende individuare una sua propria ‘legge’, una sua visione un suo atteggiamento rispetto a ogni norma e a questo vuole incoraggiare anche gli altri/il lettore». Quanto alla vergogna: «per questa volta – non come negli ultimi racconti ‘berlinesi’, in cui l’identità del narratore è quella dell’arte, dell’artista – non riesce a imporre in alcun modo una sua legge (che qualcuno ci sia riuscito si narra soltanto nelle leggende, ossia vi era riuscita – sul piano della storia – una figura mitica come Napoleone, su cui non a caso K. sempre torna: essere riuscito a partire per Berlino è impresa napoleonica!). Di conseguenza rimane la colpa della diversità e la vergogna». Dà non poco da pensare anche questo, e anche di questo c’è da essere grati a Simonetta Sanna.
Gabriele Scaramuzza
Ultimo aggiornamento 24 Giugno 2021 a cura di Redazione IISG